L’insegna della Torre Generali, simbolo scintillante del capitalismo assicurativo italiano, oggi ha deciso di scendere momentaneamente dal suo piedistallo. E non in senso metaforico: la scritta che spicca in cima al grattacielo disegnato da Zaha Hadid a CityLife, si è pericolosamente staccata, minacciando di collassare con la stessa grazia con cui crollano certe narrazioni economiche.
Se serve un’immagine per raccontare le incertezze del capitalismo italiano contemporaneo, eccola qui: un colosso d’acciaio con il marchio traballante. Il parallelismo è irresistibile. Come l’insegna, anche l’élite manageriale delle grandi compagnie finanziarie italiane, quelle delle banche e delle assicurazioni, appare oggi fragile, svuotata di visione, appesa al vento di equilibri di potere e nomine “di sistema”.
E mentre le insegne private perdono pezzi, sono proprio le torri del potere pubblico a guadagnare stabilità credibilità. Nelle aziende partecipate dallo Stato infatti si sta affermando un’inaspettata meritocrazia. I manager di primo livello scelti per guidare questi giganti non sono (solo) frutto di compromessi politici, ma sono spesso professionisti di provata capacità, selezionati per i risultati che portano, non per i favori che devono restituire. Poi ci sono anche brillanti uomini di spettacolo come CIngolani, ma questa è una storia legata più che all’imprenditoria, alla nostra capacità drammaturgica, erede di una tradizione che va dalla Mandragola al grammelot…
È una fase paradossale: nel Paese della retorica sul “meno Stato, più mercato”, i risultati migliori li dà un capitalismo a trazione pubblica, mentre quello privatissimo traballa come un’insegna su una torre troppo elegante per reggere lo stress estivo.
Certo, domani l’insegna verrà fissata, i vetri verranno ripuliti, e tutto tornerà perfettamente instagrammabile. Ma forse sarebbe il caso di fermarsi un istante a guardare meglio quei bulloni lenti in cima al sistema. Perché se anche l’estetica regge, è il progetto a richiedere manutenzione.
L’insegna della Torre Generali, simbolo scintillante del capitalismo assicurativo italiano, oggi ha deciso di scendere momentaneamente dal suo piedistallo. E non in senso metaforico: la scritta che spicca in cima al grattacielo disegnato da Zaha Hadid a CityLife, si è pericolosamente staccata, minacciando di collassare con la stessa grazia con cui crollano certe narrazioni economiche.
Se serve un’immagine per raccontare le incertezze del capitalismo italiano contemporaneo, eccola qui: un colosso d’acciaio con il marchio traballante. Il parallelismo è irresistibile. Come l’insegna, anche l’élite manageriale delle grandi compagnie finanziarie italiane, quelle delle banche e delle assicurazioni, appare oggi fragile, svuotata di visione, appesa al vento di equilibri di potere e nomine “di sistema”.
E mentre le insegne private perdono pezzi, sono proprio le torri del potere pubblico a guadagnare stabilità credibilità. Nelle aziende partecipate dallo Stato infatti si sta affermando un’inaspettata meritocrazia. I manager di primo livello scelti per guidare questi giganti non sono (solo) frutto di compromessi politici, ma sono spesso professionisti di provata capacità, selezionati per i risultati che portano, non per i favori che devono restituire. Poi ci sono anche brillanti uomini di spettacolo come CIngolani, ma questa è una storia legata più che all’imprenditoria, alla nostra capacità drammaturgica, erede di una tradizione che va dalla Mandragola al grammelot…
È una fase paradossale: nel Paese della retorica sul “meno Stato, più mercato”, i risultati migliori li dà un capitalismo a trazione pubblica, mentre quello privatissimo traballa come un’insegna su una torre troppo elegante per reggere lo stress estivo.
Certo, domani l’insegna verrà fissata, i vetri verranno ripuliti, e tutto tornerà perfettamente instagrammabile. Ma forse sarebbe il caso di fermarsi un istante a guardare meglio quei bulloni lenti in cima al sistema. Perché se anche l’estetica regge, è il progetto a richiedere manutenzione.
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